Sono almeno 171, forse 500 ie migliaia i feriti, in questa settimana di disordini nel Kirghizistan meridionale, quasi tutti di etnia uzbeka. Più di 80,000 persone si sono rifugiate nel vicino Uzbekistan, che ha chiuso le frontiere per l’impossibilità di accoglierne altre. Lunedì, la Cina ha iniziato a evacuare la maggior parte dei suoi residenti.

A Osh, la seconda città del Kirghizistan, a Jalalabad e in alcuni villaggi, Kirghizi armati hanno attaccato i quartieri Uzbeki, uccidendo e bruciando indiscriminatamente. Secondo la Croce Rossa, in un solo cimitero sono stati sepolti 100 cadaveri. Il caos si è dilagato fino alla capitale, Bishkek, ma è stato tenuto sotto controllo quando la polizia anti-sommosse ha fatto uso di gas lacrimogeni.

La Presidente del Kirghizistan Roza Otunbayeva ha proclamato lo stato d’emergenza nel sud, ha mobilitato i riservisti dell’esercito, e ha ordinato di “sparare per uccidere” dopo che la Russia ha respinto la sua richiesta di sabato scorso di mandare le proprie truppe per sedare la rivolta. Sergei Abashin, ricercatore senior dell’Istituto di Etnologia e Antropologia di Mosca, ha giustificato le decisioni presidenziali dicendo che “ la polizia locale consegnerebbe facilmente le armi ai giovani rivoltosi kirghizi perché ha molti parenti e amici nei loro clan, e non sparerebbe mai su di essi”.

Dopo consultazioni tenute lunedì con altri membri della OCTS (Organizzazione collettiva del trattato di sicurezza, della quale fanno parte anche l’Armenia, la Bielorussia, il Kazakistan, il Tagikistan e l’Uzbekistan) la Russia ha deciso di mandare elicotteri, autocarri, carburante – oltre ad aiuti umanitari – ma ha escluso l’invio di truppe. L’analista Asher Pirt ha dichiarato al Deutsche Welle che “la Russia non è disposta a intervenire a meno che non veda crearsi una situazione instabile nella regione o che gruppi etnici russi si trovino in pericolo”.

 

Le agitazioni stavano sobbollendo da quando il governo provvisorio è salito al potere il 7 Aprile scorso, allorché 81 contestatori furono uccisi dalla polizia ed il presidente Kurmanbek Bakiyev portò la capitale nella sua regione d’origine al sud. Il nuovo governo ha preso velocemente il controllo della capitale e sul nord del paese, ma non nel sud di Bakiyev, una parte della Valle di Ferghana dove Kirghizi, Uzbeki e Tagiki avevano convissuto per secoli prima che Stalin dividesse negli anni ’20 la vallata fra le repubbliche etniche, creando così le premesse dei problemi attuali. L’etnicità, comunque non è in realtà che una copertura della soggiacente distinzione fra coloni e nomadi, gli Uzbeki essendo più orientati algli affari, nell’attuale clima favorevole al mercato, sono più ricchi dei Kirghizi, rimasti legati alla pastorizia. L’Università dell’Amicizia fra i popoli è stata demolita perché finanziata da un ricco uomo d’affari uzbeko.

Il discreto silenzio di Washington, a parte lcondannare delle violenze, indica che gli USA si rendono conto che intervenire non farebbe che aggravare la situazione. Fintanto che alla sua base è concesso di restare in funzione, resterà in disparte. La base USA è altamente impopolare tra i locali, ed il risentimento e l’instabilità che incoraggia indusse inizialmente Otunbayeva a richiedere la sua chiusura per “motivi di sicurezza”. Tuttavia sotto forti pressioni USA, il contratto per la base fu rinnovato per un altro anno. Le autorità kirghize hanno bloccato le operazioni di rifornimento di carburante della Mina Corporation, che è collegato a Makism Bakiyev, figlio dello sfortunato presidente, accusato di essersi appropriato indebitamente di millioni “d’affitto” ed altri servizi alla base USA, ma le operazioni sono riprese mentre la nazione si disfaceva.

Il sottocomitato del Congresso americano per la sicurezza nazionale e per gli affari esteri ha avviato in aprile un’indagine sulla Mina Corp, registrata a Gibilterra. Il governo Kirghizo ha avviato a sua volta un’indagine sulle sei compagnie di proprietà di Maksim Bakiyev: la Manas Fuels Services, l’Aviazione Kirghiza, la Central Asia Fuel, la Aviation Fuel Service, l’Aircraft Patrol Ltd, e la Central Asia Trade Group. Entrambe le mosse lasciano presagire guai per la famiglia Bakiyev, per la quale i disordini in corso sono senza dubbio un gradito diversivo.

A questo punto, c’è poco che i Kirghizi possano fare per fermare gli Americani dal gestire la loro base come se essa fosse un’entità sovrana, e questa rappresenta una crisi politica in cui Obama può dire onestamente “io non c’entro”. Ma, purtroppo, gli Stati Uniti sono la causa prima dell’ instabilità locale, avendo associato nel 1994 il Kirghizistan e altri tre stati dell’Asia centrale al programma Nato per la pace, e negli ultimi due decenni ha scaricato le varie ONG  per la diffusione della democrazia. La Rivoluzione dei Tulipani del 2005 fu orchestrata dall’ ambasciata americana, che rovesciò il rispettato presidente Askar Akayev (il quale si stava avvicinando troppo alla Cina e alla Russia), distruggendo fatalmente ogni speranza del giovane stato indipendente. Si aggiungano delitti, droghe, prostituzione, spionaggio, terrorismo e corruzione.

La vecchia divisione etnica si era mitigata sotto Akayev, ma è peggiorata nei cinque anni della Rivoluzione dei Tulipani di Bakiyev, che ha trasformato il Kirghizistan in un feudo criminale del suo clan, lasciando i relativamente prosperi Uzbeki senza alcun potere politico. Gli Uzbeki rappresentano il 15% della popolazione, e quasi il 50% nel sud. Loro sono decisamente rallegrati dalla sua caduta. Ma ne sono rallegrati anche la maggior parte dei Kirghizi. L’aggravarsi della discriminazione è stato esacerbato anche dal ritorno dei lavoratori emigrati in Russia che hanno perso il lavoro durante la recente recessione. Questa miscela tossica è risultata in una riedizione dei violenti scontri etnici di Osh del 1990, che provocarono centinaia di morti e si placarono soltanto quando Mosca mandò le proprie truppe.

Il governo del presidente a interim Roza Otunbayeva sperava di tenere un referendum per approvare una nuova costituzione il 27 giugno, ma le probabilità che quel voto abbia luogo sono molto scarse. Ci vorranno tutte le energie del governo provvisorio, un grosso aiuto dalla Russia, e, soprattutto, ci vorrebbe la chiusura di Manas ed un ritorno del paese ad una normalità almeno apparente.

Che Otunbayeva non sia la corrotta, vendicativa aspirante pascià che Bakiyev ha cercato di dipingere, è chiaro a tutti. L’ex primo ministro Felix Kulo, che non fa parte del governo provvisorio, ha formato un gruppo sotto lo slogan: “Chiunque dà valore alla pace – Si unisca!”

I più preoccupati del collasso dell’autorità sono i suoi più immediati vicini. La mancanza di qualsiasi legge e ordine sta facendo ora del Kirghizistan un campo-giochi per il Movimento Islamico dell’Uzbekistan, che vorrebbe rovesicare anti-Islamista presidente Uzbeko.

L’Uzbekistan è uno stato di polizia che sopprime brutalmente i religiosi musulmani uzbeki, e il regime ha tutte le ragioni di temere le conseguenze di uno stato confinante in fallimento. Anche il Tagikistan, negli anni ’90, ha sofferto un’atroce guerra civile tra Musulmani dell’est da una parte, e riformatori e forze occidentali pro-governative dall’altra, e la sua pace attuale è quantomeno fragile.

 

La regione cinese dello Xinjiang condivide un confine di 850km col Kirghizistan. Ci furono estese proteste soltanto l’anno scorso da parte degli Uiguri musulmani, che aspirano a un loro stato indipendente come i loro “fortunati” fratelli Kirghizi. La Cina, comprensibilmente, si preoccupa della vicina enorme base statunitense brulicante di agenti della CIA come si preoccupa di un confine ormai poroso, che, secondo l’analista Nick Amies, facilita “operazioni di copertura destabilizzanti nella fragile provincia strategicamente e politicamente vitale.”

La Russia non ha nessun confine con il Kirghizistan, ma, come la Cina, vi ha interessi geopolitici. Il successo di Washington nell’espandere la presenza della Nato nella regione, coronato dalla creazione dell’ immensa base di Manas, è stato motivato dalla sua “guerra al terrorismo”, ma i suoi veri scopi sono l’egemonia politica ed economica. Dopotutto, sono stati gli Stati Uniti a sovvenzionare, addestrare e paracadutare da quelle parti i militanti islamici che ora infestano l’Eurasia, sulla base del principio: crea il problema, fornisci la soluzione. Esiste qualche ragione per pensare che gli USA abbiano cambiato il loro modus operandi, specialmente adesso che hanno un così facile accesso alla regione?

Come per l’Afghanistan, le vie di rifornimento Nato verso la regione attraverso il Pakistan sono praticamente inutilizzabili, facendo di Manas la questione centrale sottostante agli attuali disordini. La scorsa settimana sono stati distrutti 50 camion di rifornimento della NATO e i Talebani hanno ucciso 31 soldati della Nato. Il Generale Stanley McChrystal, comandante delle truppe Nato, sostiene che 120 leader Talebani sono stati catturati o uccisi negli ultimi 90 giorni, ma “non sono abbastanza” dicono alcuni, in quanto ogni giorno cresce sempre più “erba cattiva” nell’ implacabile clima Afghano.

Traduzione a cura di Almerico Bartoli

http://www.eurasia-rivista.org/4695/4695

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Canadian Eric Walberg is known worldwide as a journalist specializing in the Middle East, Central Asia and Russia. A graduate of University of Toronto and Cambridge in economics, he has been writing on East-West relations since the 1980s.

He has lived in both the Soviet Union and Russia, and then Uzbekistan, as a UN adviser, writer, translator and lecturer. Presently a writer for the foremost Cairo newspaper, Al Ahram, he is also a regular contributor to Counterpunch, Dissident Voice, Global Research, Al-Jazeerah and Turkish Weekly, and is a commentator on Voice of the Cape radio.

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