Eric Walberg afferma che non è Israele, sostenuto dai lontani Stati Uniti, ad aver ereditato il ruolo ottomano dell’egemonia in Medio Oriente, bensì Turchia ed Egitto in combinazione fra loro.

Mentre la rivoluzione egiziana ha riguardato soprattutto questioni interne – sostentamento, corruzione e repressione – i suoi effetti più immediati sono stati internazionali. Da molto tempo l’Egitto non era stato così importante nella regione, sia per gli amici che per i nemici. Almeno 13 dei 22 paesi della Lega Araba sono ora interessati: Algeria, Bahrain, Gibuti, Egitto, Iraq, Giordania, Libia, Mauritania, Marocco, Sudan, Siria, Tunisia e Yemen.


Ma la risonanza di tale evento è stata altrettanto forte in Israele; il che non ha precedenti per un vicino assertivo e democratico. Eccetto la Turchia. Mentre gli Stati Uniti stavano dando gli ultimi ritocchi alla NATO (istituita nell’aprile 1949), la Turchia fu la prima nazione musulmana a riconoscere Israele, nel marzo del 1949 (l’Iran lo fece un anno dopo). Sotto l’occhio vigile del suo esercito, Turchia e Israele ebbero strette relazioni diplomatiche, economiche e militari durante tutta la Guerra Fredda.

Il primo accenno di difficoltà fu la condanna da parte della Turchia dell’”oppressione israeliana” dei palestinesi nel 1987; ma è stato solo quando il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo salì al potere nel 2002, che si sentì una forte voce critica. Nel 2004 la Turchia ha condannato l’assassinio dello sceicco Ahmed Yassin da parte di Israele come un “atto terroristico ” e la politica israeliana nella Striscia di Gaza come “terrorismo di Stato”.

L’acquiescenza saudita verso l’egemonia israelo-americana si spiega con la totale dipendenza della monarchia saudita dalle entrate in dollari americani provenienti dal suo petrolio. Come segretario di Stato Usa Henry Kissinger dichiarò al Business Week, dopo che l’Arabia Saudita sfidò gli Stati Uniti con il suo embargo petrolifero a sostegno dell’Egitto nella guerra del 1973 contro Israele, che tale comportamento avrebbe potuto portare alla “massiccia guerra politica contro paesi come l’Arabia Saudita e l’Iran, mettendo a rischio la loro stabilità politica e forse la loro sicurezza, se non collaboravano“.

Le sue parole non furono vane. Re Faisal, il quale aveva rischiato tutto per aiutare egiziani e palestinesi, fu assassinato poco dopo, e il suo atto di sfida fu l’ultima voce ascoltata dai sauditi. L’Egitto, finì con il fare la pace con Israele. Perfino quando la resistenza della Turchia verso Israele è diventata più forte, Israele ha continuato a trovare sostegno nella natura accomodante del governo del presidente Hosni Mubarak, anche se si è trattato di una “pace fredda ” tra nemici.

Infatti, nonostante le relazioni ufficiali ed una manciata di foto ufficiali dei leader di Egitto e Israele che si stringono la mano nel corso degli ultimi tre decenni, il 92 per cento degli egiziani continuano a considerare Israele come il nemico, in base ad un sondaggio del 2006 del governo egiziano. Forse lo stesso Mubarak trovava di cattivo gusto mantenere buoni rapporti con Israele, ma ha rispettato i desideri degli Stati Uniti, ottenendo, dopo Israele, il pacchetto di aiuti americano più grande.

L’attuale strategia militare israeliana fu affinata nei primi anni ottanta, dopo la fine dell’Egitto come minaccia militare. Due nomi sono ad essa legata. Ariel Sharon annunciò pubblicamente nel 1981, poco prima di invadere il Libano, che Israele non pensava più alla pace con i suoi vicini, ma cercava invece di ampliare la sfera di influenza israeliana in tutta la regione “per includere paesi come la Turchia, l’Iran, il Pakistan e aree come il Golfo Persico e l’Africa, in particolare i paesi del Nord e Centro Africa”. Questa visione di Israele come superpotenza/bullo regionale divenne nota come la Dottrina Sharon.

L’invasione del Libano nel 1982 ad opera di Sharon seguì la tradizionale strategia dell’imperialismo con l’invasione diretta e la cooptazione delle élite locali, in questo caso cristiana. Ma già questa politica dell’uomo forte stava perdendo il suo fascino; infatti in Libano non funzionò. C’era sempre il rischio di una forte svolta contro il suo fautore, o di essere rovesciata.

La versione più estrema del nuovo piano d’azione israeliano per fare di Israele la potenza egemone nella regione fu “Una strategia per Israele negli anni Ottanta” di Oded Yinon. Yinon fu soprannominato ‘il seminatore di discordia’ per la sua proposta di divide et impera al fine di creare deboli staterelli dipendenti con qualche pretesa di democrazia, simile alla strategia attuata dagli Stati Uniti in America centrale; questi staterelli avrebbero combattuto tra di loro, e se nel peggiore dei casi fosse emerso un leader populista, poteva essere facilmente sabotato – “l’Opzione Salvador.” Nel 2007 il Leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha definito la politica di Israele lumeggiata da Yinon come destinata a creare “una regione che è stata divisa in Stati etnici e confessionali che sono in disaccordo tra di loro. Questo è il Nuovo Medio Oriente “.

Yinon stava usando come modello il sistema del millet ottomano, dove diversi tribunali governano le varie comunità religiose usando la Sharia musulmana, il Canone Cristiano e le leggi ebraiche della Halakha. Il Libano sarebbe stato diviso in vari stati: sunnita, alawita, cristiano e druso; l’Iraq in stati: sunniti, curdi e sciiti. Anche il regno saudita e l’Egitto sarebbero stati divisi secondo linee confessionali, lasciando Israele maestro indiscusso.

“Vera coesistenza e pace regneranno sulla terra solo quando gli arabi capiranno che senza il dominio ebraico tra la Giordania e il mare non avranno né esistenza né sicurezza”. Yinon correttamente osservò che gli stati esistenti in Medio Oriente istituiti dalla Gran Bretagna in seguito alla prima e seconda guerra mondiale erano instabili e consistevano di minoranze considerevoli che potevano essere facilmente spinte a ribellarsi. Tutti gli stati del Golfo sono “costruiti su delicate fondamenta di sabbia in cui c’è solo petrolio”.

Seguendo la strategia Yinon del 1982, Richard Perle nel suo “Un Taglio Netto” del 1996 afferma: “Israele può plasmare il suo contesto strategico, in cooperazione con la Turchia e la Giordania mediante l’indebolendo, il contenimento e perfino il rovesciamento della Siria. Questo sforzo può concentrarsi sulla rimozione di Saddam Hussein dal potere in Iraq. – un importante obiettivo strategico israeliano.”

Il ministro della sicurezza interna israeliano Avi Dichter affermò, poco dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, che “indebolire e isolare l’Iraq non è meno importante di indebolire e isolare l’Egitto.

L’indebolimento e l’isolamento dell’Egitto è effettuato con metodi diplomatici, mentre tutto può essere fatto per raggiungere un isolamento completo ed esaustivo dell’Iraq. L’Iraq è svanito come forza militare e come paese unito “.

Secondo Aluf Benn corrispondente dell’Haaretz che scriveva alla vigilia dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003, Sharon e i suoi seguaci “immaginavano un effetto domino, con la caduta di Saddam Hussein, seguita da quella di altri nemici di Israele. Arafat, Hassan Nasrallah, Bashar Assad, gli ayatollah in Iran e forse anche Muhammar Gheddafi “.

Presentando agli Stati Uniti dati di fatto e usando le sue lobby statunitensi, Israele si sarebbe mantenuto al centro dei piani americani per il Medio Oriente. L’invasione dell’Iraq è stata sempre intesa come preludio all’invasione dell’Iran. La logica israeliana, che è difficile da confutare, è che con l’Iraq oggi occupato, instabile e con la sua maggioranza sciita inevitabilmente pro-iraniana che sta assumendo il controllo, l’Iran è stato rafforzato e che è necessario uno stesso piano di guerra contro l’Iran per sconfiggere il principale regime anti-israeliano rimanente nella regione; l’Iran ora è in grado di raccogliere il sostegno non solo fra gli sciiti, ma anche fra i sunniti che in tutto il mondo arabo si oppongono al progetto israelo-statunitense. Ben Eliezer ha affermato ad una riunione: “l’Iran e l’Iraq sono gemelli, “.

Nonostante le nubi temporalesche turche all’orizzonte, fino al 25 gennaio 2011 il piano di Israele era ancora di sostituirsi ai turchi ottomani di un tempo come potenza imperiale regionale. Le nazioni arabe (preparate dalla politica britannica del divide et impera e da quella locale dell’uomo forte) sarebbero state tenute divise, deboli e dipendenti da Israele per garantire un accesso sicuro al petrolio. Una pace in stile israeliano sarebbe scoppiata per tutta la regione.

Ma questo piano si è dissolto. Nonostante i 36 miliardi di dollari versati all’esercito egiziano e l’americanizzazione delle forze armate egiziane fin dai tempi del trattato di pace con Israele, Wikileaks-egypt.blogspot.com ha testimoniato che funzionari statunitensi si sono lamentati della “natura retrograda della struttura militare dell’Egitto ” (leggi: Israele è ancora il principale nemico dell’Egitto), e che i generali dell’esercito rimangono refrattari al cambiamento ed alle riforme economiche per smantellare ulteriormente il potere del governo centrale.

Il Ministro egiziano della Difesa Muhammad Tantawi “ha resistito a ogni cambiamento di utilizzo del finanziamento FMF [finanziamento militare estero] ed è stato il principale ostacolo a che i militari affrontino le nuove minacce alla sicurezza.”. In parole povere, il reale centro decisionale dello Stato egiziano è stata criticato dagli Stati Uniti perché si rifiutava di appoggiare la nuova strategia USA-Israele che avrebbe incluso la difesa dell’Egitto in una più ampia guerra della NATO contro le “minacce asimmetriche ” (leggi: la “guerra al terrore“) e ad accettare Israele come egemone nella regione.

Mubarak è stato l’uomo forte egiziano che si è adeguato alla strategia di Sharon. Ma è stato rovesciato in un modo veramente imprevisto – cioè dal popolo. La strategia del divide et impera di Yinon – nel caso dell’Egitto, incitando i musulmani contro i copti – è stata compromessa con la rivoluzione popolare, essendo uno dei suoi simboli la mezzaluna e la croce.

C’è stato davvero “un taglio netto” con il passato, ma non quello previsto da Perle. Il suo schema può essere riformulato come: Egitto e Turchia possono plasmare il loro ambiente strategico, in cooperazione con Siria e Libano, con l’indebolimento, il contenimento, e anche il rovesciamento di Israele. Per quanto riguarda la tracotanza di Dichter, a questo punto è impossibile vedere cosa riserva il futuro per l’Iraq, ma non sarà quello che aveva in mente. E l’Iran ora può tirare un sospiro di sollievo.

Un anno e mezzo fa, un sommergibile della Marina israeliana attraversava il Canale di Suez verso il Mar Rosso, dove condusse una esercitazione, che rifletteva la cooperazione strategica tra Israele ed Egitto, allo scopo di inviare all’Iran un segnale di deterrenza. Solo una settimana dopo la caduta di Mubarak, il canale è stato utilizzato per trasmettere un altro segnale di deterrenza- ma questa volta per Israele, quando navi da guerra iraniane hanno attraversato il canale dirette verso i porti siriani.

Né gli sconvolgimenti in tutto il mondo arabo stanno attualmente seguendo lo scenario settario immaginato da Yinon. Perfino la rivolta sciita in Bahrain riguarda più una monarchia neocoloniale oppressiva, originariamente imposta dai britannici, che non l’ostilità tra sciiti e sunniti
Il Ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman ha espresso timori circa i Fratelli musulmani “che minano il trattato di pace”, che l’85 per cento degli israeliani approva. Ma non ha ragione di temere. Mentre gli egiziani non hanno amore per Israele, nessuno contempla un’altra guerra contro quello che è chiaramente un vicino più potente e spietato.

Ciò che veramente preoccupa gli esponenti del Likud è che il nuovo Egitto, in collaborazione con la nuova Turchia porrà termine alla strategia Sharon/Yinon mirante ad affermare Israele come potenza regionale. E lo stesso dovrà entrare nel concerto delle nazioni non come un “bullo” spietato, ma come un partner responsabile.

http://www.eurasia-rivista.org/8614/egittoturchia-israele-un-taglio-netto

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Canadian Eric Walberg is known worldwide as a journalist specializing in the Middle East, Central Asia and Russia. A graduate of University of Toronto and Cambridge in economics, he has been writing on East-West relations since the 1980s.

He has lived in both the Soviet Union and Russia, and then Uzbekistan, as a UN adviser, writer, translator and lecturer. Presently a writer for the foremost Cairo newspaper, Al Ahram, he is also a regular contributor to Counterpunch, Dissident Voice, Global Research, Al-Jazeerah and Turkish Weekly, and is a commentator on Voice of the Cape radio.

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